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8 mar 2013

Se le dimissioni sono un segno


Ai fratelli Cardinali che presto si riuniranno IN CONCLAVE  per l’elezione del nuovo Papa, atteso dalla Chiesa di Gesù e da tutta l’umanità per accelerare l’inizio dell’ETA’ AUREA DELLA REDENZIONE, FONDATA SULLA SANTITA’ DELLA FAMIGLIA IN CUI GLI UOMINI GODRANNO IL LUNGHISSIMO PERIODO DI PACE E DI BENESSERE MESSIANICI CHE GRADUALMENTE PREPARERA’ I CIELI NUOVI E LA TERRA NUOVA,

RIVOLGO L’ACCORATO INVITO A LEGGERE E A MEDITARE SULL’ISPIRATO ARTICOLO DEL FRATELLO FELICE SCALIA DAL TITOLO “ SE LE DIMISSI0NI SONO UN SEGNO”  E CHE RIPORTO NEL BLOG DELL’OPERA CENACOLO FAMILIARE  www.operacefa.blogspot.com.

Il vostro umile fratello sac. Salvatore Paparo

Cintano 6 marzo 2013

Se le dimissioni sono un segno

di Felice Scalia
«Il nuovo papa vi stupirà», aveva detto il card. Martini all’uscita dal Conclave. Frase di apprezzamento per Benedetto XVI in chi la pronunziava, ma di incertezza in chi ascoltava: in che senso lo stupore? E forse nessuno pensava a quest’ultima sorpresa delle dimissioni, subìta dai cattolici l’11 febbraio scorso. Un papa stremato o un papa disperatamente attivo nella Chiesa?
Ci sono momenti nella vita in cui realmente non si sa più che fare                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       per la persona amata, per l’impresa da salvare, per mettere al sicuro almeno i cocci di un sogno infranto. Qualsiasi soluzione sembra inadeguata. Sembra che ci si possa solo arrendere all’ineluttabile. Ogni parola è stata detta, ogni chiarimento fornito. Tutto inutile. In occasioni come queste l’angoscia che lacera esistenze generose ma frustrate, trova in un “segno” l’ultima parola da dire, l’ultimo monito da lanciare: passare il testimone, cedere il ponte di comando, fare un passo indietro. E sarà anche un gesto di amore, di fedeltà alla “causa”. Se ci è lecito accostare i nostri piccoli drammi – sempre tali, per quanto ci sembrino enormi – alla tragedia del Golgota, anche lì Gesù di Nazareth nulla poté se non perdonare i crocifissori e consegnare il suo “Spirito” nelle mani misteriose del Padre. 
A diversi giorni da quella data, mi piace pensare alle dimissioni di Benedetto XVI come ad un “segno di amore”. Amore per la Chiesa, prima di tutto, forse esclusivamente. Chissà se questo segno estremo di amore farà aprire gli occhi ai responsabili. Chissà se questo disperato gesto di fedeltà alla Chiesa farà trovare alla barca di Pietro la rotta giusta.
Abituati come siamo noi preti a “spenderci” fino all’estremo, non ho mai pensato che al centro delle preoccupazioni del papa ci fosse la sua voglia di ritirarsi come un vecchio nonno, su una poltrona, con i libri, la musica, la preghiera ed i tanti ricordi nostalgici da rivivere con antichi alunni. Se quel lunedì 11 febbraio al centro della motivazione c’era la sua condizione di persona anziana, nella messa delle Ceneri e nella prima domenica di Quaresima, papa Ratzinger lo dice chiaro e tondo: me ne vado «per il bene della Chiesa», perché non resisto più di fronte ad una Chiesa «sporca», ingovernabile, «deturpata» da vecchi individualismi e da rivalità, da vere idolatrie; ci si serve di Dio con la scusa di servirlo, lo si usa «per i propri interessi, la propria gloria, il proprio successo».
Da cardinale, anche alla vigilia dell’elezione papale, Ratzinger aveva parlato di sporcizia nella Chiesa, e intendeva riferirsi in gran parte al carrierismo ed alla ricerca di potere e prestigio. Lo aveva ripetuto da papa “fresco” di elezione, in un colloquio col presbiterio della Val d’Aosta. Lo disse agli ultimi sacerdoti ordinati da lui in San Pietro invitandoli ad andarsene se erano venuti in cerca di onore e non della croce di Cristo. Ebbene queste Schmutzigkeiten, queste “porcherie” lui non era riuscito ad estirparle dalla Chiesa, come pure sperava; forse gli si erano moltiplicate sotto gli occhi. Gli accorati richiami non erano serviti a niente, né quelli dell’inizio pontificato né quelli durante il suo corso. Diverse volte le controtestimonianze erano esplose in vicende inimmaginabili.
A questo punto che resta da fare ad un papa? L’arco delle ipotesi non è ampio. La deriva, il lasciar fare riservandosi una rappresentanza formale e certi settori di governo, la rinunzia, l’implicita connivenza… 
Sappiamo cosa ha scelto Benedetto XVI. Ma come “minor male” o come “unico bene” possibile? Si è trattato di un “Se volete lacerare la Chiesa, fatelo pure, ma non nel mio nome”? Oppure di una messa in guardia: “Siete sull’orlo dell’idolatria con questa strumentalizzazione di Cristo, e vi costringo ad aprire agli occhi”? 
Anche se propendo per questa seconda ipotesi (posso non aver condiviso alcune cose di questo pontificato, ma non ho mai dubitato della rettitudine del credente Joseph Ratzinger), la verità non la sapremo mai. Vorrei però aprire gli occhi anche io, perché anche io sono Chiesa. E mi chiedo quale sia la strada perché la Chiesa non sia più “deturpata”, almeno da me. Il papa ci sta dicendo che dobbiamo avere molta più diffidenza di quanta ne ha avuta lui verso il Vaticano II e la sua interpretazione? Oppure che il rimedio ai mali attuali è il ritorno fiducioso ad un evento che fu un vero dono “incompreso” della Grazia?
Non è azzardato pensare che il cardinale Ratzinger una linea risolutiva per rendere più evangelico il volto della Chiesa, alla sua elezione l’avesse. E forse la conosciamo: dato che molti mali sono venuti dopo il Concilio Ecumenico, ritorniamo al passato, eliminiamo quegli aspetti del Vaticano II che, mal interpretati, hanno portato a “chiudere chiese, seminari, noviziati”, ostacoliamo in tutti i modi le tante derive rivelatesi pericolose, eliminiamo ogni voce dissonante rispetto alla teologia romana, risuscitiamo ogni veneranda tradizione… 
Vorrei poter pensare che le dimissioni siano il segnale del fallimento di questa “ricetta” papale. Avrei qualche motivo per pensarlo e lo espongo.
Al di là delle intenzioni e delle previsioni, la diffidenza verso il Vaticano II ha portato ad una ventata di ecclesiocentrismo piuttosto preoccupante. La Chiesa e i suoi interessi prima di tutto, prima del Regno di Dio, a volte prima della persona, prima del Vangelo, se non prima di Cristo. Ma l’ecclesiocentrismo è gemello di una amplificata esigenza di istituzionalizzazione. Il rischio che la Chiesa-istituzione prenda il sopravvento sulla Chiesa-mistero si fa allora davvero grande. E quando questo capita si toglie ogni stura all’ambizione personale degli uomini, al carrierismo, alla ricerca di splendore e ricchezza, all’apparire vanitoso, alle lacerazioni intestine, alle divisioni del corpo ecclesiale, perfino alla necessità di barattare la giustizia con il “buon nome della Chiesa”. Si pensi alla protezione accordata ai preti pedofili per evitare scandali ed alla conseguente dimenticanza delle vittime. Non era un criminale alleato dei pedofili quel cardinale Mahony a cui oggi si vorrebbe “consigliare” di non chiudersi in Conclave, ma solo un accanito ecclesiocentrico. Se questo è vero, non solo la linea papale non ha “pulito” la Chiesa, ma – certo contro ogni intenzione – l’ha ulteriormente sporcata. 
Si dica lo stesso per quanto riguarda il problema finanziario della e nella Chiesa. Nessuna riforma seria è stata fatta per diminuire le spese della Cattedra di Pietro. Una Chiesa “povera”, aliena dalla voglia di trattare alla pari, “Potente coi Potenti” di questo mondo, Stato tra Stati; una Chiesa che come prima saggezza, prima della sua cultura teologica, giuridica, storica, presenta “l’insipienza del Vangelo”; una Chiesa che favorisce la credibilità di testimoni capaci di fare proprie le speranze, le gioie, le afflizioni della gente; una Chiesa che sta accanto ai poveri, che guarda coi loro occhi; se tutto questo viene praticamente messo in secondo piano, o in cattiva luce, a causa della diffidenza verso il Vaticano II o per convenienze ideologiche, come si vuole che non nascano scandali legati al denaro, allo Ior, alla ricattabilità degli uomini di Chiesa?  
Lasciando da parte qualche comprensibile vanità umana, un tale grado di mondanizzazione della Chiesa, non era certamente nelle previsioni di papa Benedetto. Si è trovato il marcio davanti agli occhi mentre cercava frutti sani, zizzania pur avendo voluto seminare buon grano.
Per fermarmi solo ad un altro aspetto, mi chiedo se il Vaticano II, proponendo una vera collegialità episcopale, non avesse indicato la strada per ovviare alla obiettiva difficoltà di un governo centralizzato che per secoli ha retto la Chiesa nello stesso clima di una monarchia assoluta. Sono note le posizioni di papa Ratzinger in merito al munus petrinum. Non ci risulta che abbia dato una risposta alla richiesta di Giovanni Paolo II che era consapevole della necessità di rivedere non il suo compito ma il modo storico in cui esso veniva esercitato. L’accentramento curiale e papale è stato, semmai, nei fatti rafforzato, mai intaccato. E se questo accentramento ha per necessità di cose creato un gruppo, una oligarchia piuttosto potente ed efficace, tutto questo non ha evitato che la Curia romana vivesse il clima tipico di una Curia, cioè di una “corte”, vizi e virtù comprese, come pure esasperazioni di ambiziosi ed eroismi di servi fedeli. La non-collegialità allora non ha finito per “deturpare” quella Chiesa che doveva “pulire”? Non ha dimostrato l’impossibilità che un uomo solitario porti il peso “di tutte le chiese”?
Ovviamente non lego affatto la mia fede nel Cristo e nella sua promessa di non abbandonare mai la sua Chiesa, alla persona del futuro papa. Dico solo: se la diffidenza verso il Vaticano II può essere la causa remota dei mali della Chiesa contemporanea, non è venuto il tempo di pensare che una “Nuova Pentecoste” c’è stata e che bisogna spalancare porte fin troppo serrate alla vita e alla grazia?

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