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30 set 2013

IL RICCO EPULONE E LAZZARO

XXVI DOMENICA PER ANNUM C 29 SETTEMBRE 2013 OMELIA La parabola evengelica di oggi inizia descrivendo la diversa situazione di vita di due uomini: uno di essi è molto ricco, si veste in modo lussuoso, e ogni giorno organizza lauti banchetti; il secondo uomo, invece, è poverissimo, per vestito ha le sue tante piaghe sparse in tutto il suo corpo; per la sua debolezza non si regge in piede e sta sdraiato per terra; per sopravvivere deve acconterarsi di mangiare le briciole che cadono dalla mensa del ricco. Il ricco e il povero hanno una sola cosa in comune: come tutti gli altri uomini sono mortali: e difatti muoiono tutti e due. Nella vita dell’al di là, però, la situazione di vita dei due uomini è del tutto capovolta: il ricco va in un luogo di tormenti; il povero, invece, va in un luogo di perfetta felicità. A questo punto dobbiamo accentuare che, nel luogo del tormento, il ricco non può ricevere il benchè minimo sollievo. Leggiamo, infatti, che il ricco, alzando gli occhi verso l’alto, vede Lazzaro accanto al Padre Abramo al quale rivolge questa supplica: “ Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma padre Abramo gli rispose:”Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora lui è consolato, tu, invece, sei in mezzo ai tormenti. Tra noi e voi, poi, c’è un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono; né di lì possono giungere fino a noi”. Il ricco replicò: “Allora, Padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammoniscano severamente perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo gli rispose: “Hanno Mosè e i profeti: ascoltino loro”. Il ricco replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo concluse: “”SE NON ASCOLTANO MOSE’ E I PROFETI, NON SARANNO PERSUASI NEANCHE SE UNO RISORGESSE DAI MORTI”. E qui, con tanta tristezza, penso alle tante persone che affermano: “NESSUNO E’ MAI VENUTO DALL’AL DI LA’ “. E quel che più mi rattrista è il fatto che queste persone si credono e si dicono cristiane. Esse non si rendono conto che pensando e parlando così, RIFIUTONO GESU’: GESU’, INFATTI, NON E’ FORSE VENUTO DALL’AL DI LA’ ? “; NON E’ FORSE IL FIGLIO DI DIO FATTOSI UOMO, IL FIGLIO DI DIO CHE E’ VENUTO IN MEZZO A NOI PER DIRCI CHE DIO E’ NOSTRO PADRE, PER DIRCI CHE NOI SIAMO FIGLI DI DIO, CHE SIAMO FRATELLI E SORELLE TRA DI NOI E CHE CI ATTENDE TUTTI IN CIELO PER RENDERCI PEFETTAMENTE FELICI?”. ESAMINIAMOCI CON SINCERITA’ E PREGHIAMO COSI’: “SIGNORE DIO NOSTRO PADRE, LA MIA FEDE IN TE E’ DEBOLE. AUMENTA LA MIA FEDE”. Sac. Salvatore Paparo

28 set 2013

Amatissimo

Amatissimo e stimatissimo mons. Luigi, dal settimanale diocesano “Il Risveglio Popolare”, apprendo che la diocesi di Ivrea il prossimo 6 ottobre festeggerà il cinquantesimo anniversario della sua ordinazione episcopale. Le manifesto la mia gioia trascrivendole LA MIA QUINTA LETTERA AL SIGNORE GESU’ RISORTO, UNICO SALVATORE DEL MONDO: 21 GIUGNO 2012, FESTA DI SAN LUIGI GONZAGA, ONOMASTICO DEL VESCOVO MONS. LUIGI BETTAZZI GRANDE APOSTOLO DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, INGIUSTAMENTE CRITICATO DALLA GERARCHIA CATTOLICA. Amatissimo SIGNORE GESU’ RISORTO, UNICO SALVATORE DEL MONDO, il Concilio Ecumenico Vaticano III, già dolcemente e sapientemente INIZIATO DALLO SPIRITO SANTO, avrà una lunghissima celebrazione: durerà il tempo che sarà necessario perché i CRISTIANI, allo scandalo che fino adesso hanno offerto al mondo con la loro divisione, facciano seguire L’ATTRAZIONE ALLA TUA PERSONA, offrendo al mondo lo spettacolo DELLA LORO UNITA’, FRUTTO DEL LORO RECIPROCO AMORE FRATERNO. Allora si realizzeranno le tue due seguenti profezie: “PADRE, CHE SIANO UNA SOLA COSA COME IO E TU SIAMO UNA SOLA COSA. COSI’ IL MONDO CREDERA’ CHE TU MI HAI MANDATO”. “HO ALTRE PECORE CHE NON SONO IN QUESTO GREGGE. ANCHE DI LORO DOVRO’ DIVENTARE PASTORE. ASCOLTERANNO LA MIA VOCE, E DIVENTERANNO UN SOLO GREGGE SOTTO LA GUIDA DI UN SOLO PASTORE”. Uno dei tantissimi tuoi umili strumenti DEL TUO AMORE MISERICORDIOSO. Sac. Salvatore Paparo “. Amatissimo Mons. Luigi, abbracciandolo fraternamente, Le auguro che il Signore Le conceda ancora tantissimi anni di vita PERCHE’ SIA L’APOSTOLO E IL VESCOVO PIU’ ANZIANO DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO III. Sac. Salvatore Paparo Cintano 20 settembre 2013

23 set 2013

XXV DOMENICA PER ANNUM C

22 settembre 2013 OMELIA Oggi Gesù e il profeta Amos ci parlano dei pericoli della ricchezza. Nell’ottavo secolo prima della nascita di Gesù, la Palestina viveva una vita agricola ed era travagliata da una grave disuguaglianza sociale ed economica: da una parte c’erano i ricchi che diventavano sempre più ricchi sfruttando i poveri; e dall’altra parte c’erano i poveri che diventavano sempre più poveri perchè sfruttati dai ricchi. Il profeta Amos, in nome di Dio, rimproverò severamente i ricchi, ed in modo particolare i commercianti disonesti. Denunziò anche la loro falsa religiosità e disse loro: “Sì, è vero che in giorno di festa non aprite il negozio per osservare il riposo sabatico prescritto dalla Legge di Mosè; sì, è vero, voi la festa andate a pregare nella sinagoga; ma Dio non può gradire questa vostra religiosità perché, trascorsa la festa, vendete il grano scadente, aumentate i prezzi ingiustamente, falsificate le bilance. Non solo, ma la vostra ingordigia arriva al punto da prendere in pegno i poveri che non possono pagare quanto hanno acquistato e poi non vi vergognate di venderli come schiavi”. La parabola di Gesù che San Luca ci ha ricordato nel brano evangelico, abitualmente viene denominata “La parabola dell’amministratore disonesto. Ma più precisamente dovrebbe chiamarsi “La parabola dell’amministratore furbo”. Gesù, infatti, pone in rilievo l’abilità con cui l’amministratore ha saputo liberarsi dai suoi guai; e il padrone loda l’amministratore perchè aveva agito con scaltrezza. In verità, l’operato dell’amministratore fu molto scaltro: diminuendo i debiti di grano e di olio, si fece degli amici tra i debitori del suo padrone, i quali, una volta licenziato, lo accolsero nella loro casa e così si salvò dalla miseria. La parabola sulla quale stiamo riflettendo, ci impartisce una grande lezione: ci ricorda che noi non siamo i proprietari di quanto possediamo ma solo gli amministratori. Il padrone è Dio e a Lui un giorno dovremo rendere conto della nostra amministrazione. Per quanto riguarda il denaro che abbiamo, la volontà di Dio è che tratteniamo per noi solo la quantità di cui necessitiamo per vivere una vita dignitosa. Tutto il resto non appartiene a noi, ma ai poveri. Ad essi dobbiamo ditribuirlo perché siano sempre più meno poveri e, possibilmente, vincano del tutto la loro povertà. Sac. Salvatore Paparo

17 set 2013

VENTUNESIMA LETTERA

AL SIGNORE GESU’ RISORTO, BUON PASTORE, UNICO SALVATORE DEL MONDO. Amatissimo mio Gesù, costato, con somma gioia, che Papa Francesco, docile alla voce dello Spirito Santo, pensa, parla ed agisce secondo le attese del Concilio Ecumenico Vaticano III. Adesso non gli resta che, favorito dagli eccezionali mezzi di comunicazione sociale moderni, organizzare la Chiesa, dialogando anche con tutti gli uomini e con tutte le donne di buona volontà, in modo che si arrivi presto alla Pace Mondiale Messianica che gradualmente preparerà “I CIELI NUOVI E LA TERRA NUOVA”. Il tuo piccolo Gesù Sac. Salvatore Paparo Cintano 16 settembre 2013

14 set 2013

Il Papa fa aprire i conventi

IL PAPA: APRIRE I CONVENTI VUOTI AI RIFUGIATI Francesco visita il Centro Astalli che nel cuore di Roma assiste e nutre coloro che fuggono da guerre e violenze ANDREA TORNIELLI ROMA «I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati». Lo ha detto alzando gli occhi dal testo scritto Papa Francesco, nel corso della sua visita al Centro Astalli, il luogo nel cuore di Roma che accoglie, nutre e aiuta rifugiati. Qui da oltre trent'anni vengono assistite persone arrivate in Italia che fuggono da guerre, violenze e torture. Francesco teneva molto a questo appuntamento, che prosegue in qualche modo la sua visita a Lampedusa: com'è nella tradizione più antica del vescovo di Roma, i poveri e i perseguitati sono al centro della sua attenzione. Francesco è arrivato al Centro Astalli alle 15.25, a bordo di una Ford Focus blu, senza scorta e senza segretario al seguito. Il Papa ha salutato già fuori molti di coloro che aspettavano di poter consumare il pasto. Poi è entrato in mensa e si è avvicinato agli ospiti che stavano mangiando e poi si è trattenuto con una ventina di rifugiati. Ha ascoltato le loro terribili storie, particolarmente toccante quella di Carol, siriana. Ha sottolineato alcuni passaggi di ciò che aveva ascoltato, affermando che l'integrazione «è un diritto». Dopo un breve momento di preghiera nella cappellina del Centro Astalli, e dopo aver salutato tutto il personale - gli è stato offerto anche del mate - il Papa si è spostato nella vicina chiesa del Gesù, dove ha incontrato 250 volontari che prestano servizio in quattro centri di accoglienza gestiti dal Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati. «Servire, che cosa significa? Servire - ha detto Francesco - significa accogliere la persona che arriva, con attenzione; significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e con comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli apostoli». «Servire significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro innanzitutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà». Solidarietà, ha aggiunto Francesco, «questa parola che fa paura al mondo più sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una parolaccia per loro. Ma è la nostra Parola! Servire significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione». « Per tutta la Chiesa - ha detto ancora il Papa - è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia non vengano affidate solo a degli “specialisti”, ma siano un’attenzione di tutta la pastorale, della formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno normale di tutte le parrocchie, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali». Francesco ha poi pronunciato parole molto forti invitando le congregazioni religiose e non tenere i conventi vuoti. « In particolare – e questo è importante e lo dico dal cuore – in particolare vorrei invitare - ha detto -anche gli Istituti religiosi a leggere seriamente e con responsabilità questo segno dei tempi. Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle case, nei conventi vuoti…». «Carissimi religiosi e religiose - ha aggiunto il Papa - i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio. Facciamo tanto, forse siamo chiamati a fare di più, accogliendo e condividendo con decisione ciò che la Provvidenza ci ha donato per servire» «Superare la tentazione della mondanità spirituale - ha concluso il Pontefice - per essere vicini alle persone semplici e soprattutto agli ultimi. Abbiamo bisogno di comunità solidali che vivano l’amore in modo concreto! Ogni giorno, qui e in altri centri, tante persone, in prevalenza giovani, si mettono in fila per un pasto caldo. Queste persone ci ricordano sofferenze e drammi dell’umanità. Ma quella fila ci dice anche che fare qualcosa, adesso, tutti, è possibile. Basta bussare alla porta, e provare a dire: “Io ci sono. Come posso dare una mano?”». Il Papa alla fine ha accompagnato una famiglia di rifugiati a offrire un omaggio floreale sulla tomba di padre Pedro Arrupe, che fu generale dei gesuiti.

Papa Francesco a Repubblica

Papa Francesco scrive a Repubblica: "Dialogo aperto con i non credenti" Il Pontefice risponde alle domande che gli aveva posto Scalfari su fede e laicità. "E' venuto il tempo di fare un tratto di strada insieme". "Dio perdona chi segue la propria coscienza" di FRANCESCO PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto. La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth". Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo. Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro. La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo. La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità. Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme. Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth. Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione. Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini. Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell'Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l'identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un'autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l'incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine. Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l'uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch'egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l'ha rifiutato, ma per attestare che l'amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono. La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell'amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell'incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l'incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell'amore e nella fedeltà all'Abbà, testimonia l'incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica. Sempre nell'editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio. L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l'esclusione. Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l'amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là. Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto. Vengo così alle tre domande che mi pone nell'articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l'atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire. In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all'inizio di questo mio dire. Nell'ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell'uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio - questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell'uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell'uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l'uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con lui. La Scrittura parla di "cieli nuovi e terra nuova" e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà "tutto in tutti". Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all'invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall'Abbà "a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19). Con fraterna vicinanza Francesco

13 set 2013

XXIV domenica per annum

15 settembre 2013 C OMELIA L’evangelista San Luca, giustamente riconosciuto come il cantore della Misericordia di Dio, nel brano evangelico che abbiamo proclamato ci ha ricordato le tre bellissime parabole che ci permettono di comprendere sempre meglio l’amore misericordioso di Dio verso di noi. Le suddette parabole iniziano con questa costatazione di fatto: il peccatore si trova in uno stato di disagio e di tristezza come la pecorella smarrita che, sola, vaga per i monti e che ad un certo punto resta impigliata tra le spine dei rovi che la fanno sanguinare e la costringono ad emettere dei belati di dolore e di invocazione di aiuto; il peccatore si trova in uno stato di disagio e di tristezza come il figliolo prodigo che, allontanatosi dalla casa paterna, sperpera tutti i suoi soldi, si riduce ad una estrema miseria, soffre i morsi della fame e rimpiange amaramente il benessere perduto. Dalla suddetta costatazione di fatto le tre parabole passano a descrivere l’amore misericordioso di Dio che tutto mette in azione per distruggere il nostro peccato e la nostra tristezza: scorgiamo Gesù alla nostra ricerca come quella donna che non va a prendere sonno fino a quando non ritrova la sua dramma perduta; scorgiamo Gesù, Buon Pastore, che non teme le fatiche della montagna pur di riportare all’ovile la pecorella smarrita; scorgiamo Gesù nel padre che spesso sale sulla terrazza della sua casa e punta lontano i suoi occhi nella speranza mai spenta di rivedere e di riabbracciare il suo figliolo traviato. Dinanzi a Gesù che ci cerca per ritrovarci dobbiamo assumere l’atteggiamento dell’Apostolo Paolo che scrisse così al vescovo Timoteo: “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io, io che ero un bestemmiatore, un persecutore, un violento”. Per poterci dire veramente convertiti, però, non è sufficiente riconoscerci peccatori; è necessario anche mutare vita come San Paolo che potè testimoniare di sé quanto segue: “ Mi è stata usata misericordia e la grazia del Signore nostro in me non è stata inutile: per Gesù, infatti, viaggio continuamente, accetto con gioia le persecuzioni, la la fame e la sete; per Gesù predico anche se sono incatenato perché la parola di Dio non può essere incatenata; per Gesù mi sono lasciato flagellare e lapidare; per Gesù sono ricercato a morte come se fossi un malfattore”. La nostra conversione, dunque, deve portare i suoi frutti pratici. Certo, non possiamo pretendere che la nostra vita sia modellata su quella di San Paolo. Infatti, le situazioni di vita in cui noi viviamo sono molto differenti da quelle in cui visse San Paolo. Tutti, però, dobbiamo agire in modo da poter affermare come lui: “Mi è stata usata misericordia, e la grazia de Signore in me non è stata inutile: non è stata inutile perché sento bisogno di pregare e durante la giornata parlo spesso con il Signore; non è stata inutile perché sono un convinto praticante; perché dinanzi ai poveri, ai bisognosi e ai sofferenti sento viva compassione per loro e cerco, secondo le mie possibilità, di sollevare le loro sofferenze; non è stata inutile perché stimo tutte le persone e non mi permetto di giudicarle e di condannarle; non è stata inutile perché quando sono offeso o danneggiato non cerco la vendetta, ma imito Gesù che perdonò i suoi stessi crocifissori, scusandoli: “Padre, perdona loro pechè non sanno quello che fanno”. Concludo ripetendo quanto San Paolo ci ha detto nella seconda lettura sulla sua conversione: “Mi è stata usata misericordia perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”. Sac. Salvatore Paparo

11 set 2013

DIO UMILIA I SUPERBI ED ESALTA GLI UMILI

XXII DOMENICA PER ANNUM C 1 SETTEMBRE 2013 OMELIA Il vangelo di oggi ci riferisce che Gesù, invitato ad un pranzo, notò due stonature di grande rilievo: la prima riguardava gli invitati, la seconda il capo dei farisei che aveva organizzato il pranzo. Notò, cioè, che gli invitati gareggiavano per occupare i primi posti; e notò anche che il padrone di casa aveva esteso l’invito solo a persone ricche. Gesù rimproverò severamente sia gli invitati sia il padrone di casa. Ai commensali disse: “Non cercate i primi posti ma gli ultimi: perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. “E tu, disse poi al padrone di casa, hai fatto molto male ad invitare solo i ricchi per ottenere il contraccambio. In seguito invita piuttosto i poveri che non possono contraccambiarti. Riceverai così la ricompensa alla risurrezione dei giusti”. In altre parole Gesù condanna la superbia e l’agire interessato; e raccomanda l’umiltà e l’agire disinteressato. San Bernardo elenca così alcune manifestazioni della superbia, odiosa dinanzi agli occhi di Dio e dinanzi agli occhi degli uomini: “Ti signoreggia la superbia del cuore per cui tu non pensi che a te e alle tue virtù. Ti signoreggia la superbia della bocca per cui parli bene solo di te e delle tue cose, mentre degli altri e delle loro cose sai soltanto criticare. Ti signoreggia la superbia dell’azione per cui tu cerchi il primo posto e fai il bene per essere lodato”. Quelle elencate sono alcune manifestazioni della superbia. E quali ne sono le conseguenze? La superbia attira l’ira di Dio: Dio resiste ai superbi e li umilia. Basta citare due impressionanti esempi che la storia ha registrato: Alessandro Magno si faceva chiamare “FIGLIO IMMORTALE DI DIO”. Colpito, però, da una freccia, mentre moriva capì la stoltezza della sua superbia ed esclamò: “Tutti mi chiamano immortale: ma questa ferita e questo sangue gridano altamente che anch’io sono un uomo mortale”. Napoleone Bonaparte si credeva un dio dominatore del mondo ed onnipotente. Non temette neanche la scomunica del Papa; anzi ridicolizzò il Papa stesso: “La tua scomunica, gli disse, non farà cadere le armi dalle mani dei miei soldati”. In un primo momento sembrò che Napoleone avesse ragione: nel 1812, infatti, entrò da trionfatore a Mosca e gonfio di sé fece coniare una medaglia commemorativa in cui da una parte c’era la sua testa, e dall’altra parte la seguente iscrizione riferita a Dio: “IL CIELO E’ TUO, LA TERRA E’ MIA”. Ben presto, però, Napoleone costatò la sua pochezza: fu vinto dai Russi e durante la ritirata, per l’intenso freddo, le armi caddero realmente dalle mani dei suo soldati. Non solo, ma Napoleone finì la sua vita ingloriosamente, esiliato nell’isola di Sant’Elena. Dio, dunque, umila i superbi, umila coloro che si credono qualcosa mentre siamo tutti polvere. E come Dio tratta coloro che agiscono per vanagloria? Considera il bene da loro fatto come se non l’avessero fatto e non dona loro alcuna ricompensa. Dice, infatti, Gesù: “Guardatevi dal fare il bene per essere visti dagli uomini, altrimenti non avrete ricompensa dal Padre vostro che è nei Cieli. Coloro che agiscono per essere lodati dagli uomini hanno già ricevuto la loro ricompensa”. Il bene che facciamo, dobbiamo farlo per amore di Dio e del prossimo; non dobbiamo sbandierarlo ai quattro venti ma tenerlo, il più possibile, nascosto; e Dio che vede nel segreto ce ne darà la ricompensa. Sac. Salvatore Paparo

6 set 2013

FESTA DELLA NATIVITA’ DI MARIA SANTISSIMA

7-8 settembre 2013 Preghiamo, perché Maria Santissima che oggi festeggiamo nella sua gioiosa NATIVITA’, REGINA DELLA PACE, ci ottenga presto dalla Famiglia Trinitaria di Dio Padre, di Dio Figlio, di Dio Spirito Santo, LA PACE MONDIALE MESSIANICA, profetizzata sulla grotta di Betlem, e da LEI confermata a Fatima e a Medjugorje: “ALLA FINE IL MIO CUORE IMMACOLATO TRIONFERA’ ED IL MONDO AVRA’ UN PERIODO DI PACE”, Preghiamo, ASCOLTACI, SIGNORE. AMEN.

3 set 2013

E’ GIUNTA L’ORA

Amatissimo mio Gesù Risorto, Buon Pastore e Unico Salvatore del mondo, è giunta l’ora, l’ora della fine di tutte le guerre fratricide, l’ora dell’inizio della Pace Mondiale Messianica che gradualmente preparerà “I CIELI NUOVI E LA TERRA NUOVA”. Il diavolo e i suoi figli stanno attuando il disperato sforzo di distruggere il mondo intero e tutta l’umanità con la guerra e il terrorismo, frutto del loro egoismo e del loro odio. E’ tempo che tutti i figli di Dio ci uniamo per aiutare Te e Maria Santissma, Regina della pace, perché il diavolo e i suoi figli siano definitivamente sconfitti. E per aiutarvi c’è un unico mezzo: CONVERTIRCI ALL’AMORE. Con l’aiuto della Famiglia Trinitaria di Dio Padre, di Dio Figlio, di Dio Spirito Santo, e della Sacra Famiglia di Nazaret, dobbiamo vincere il nostro egoismo e il nostro odio, e imitare Te ponendoci a servire come Te i nostri fratelli e le nostre sorelle. Ha fatto bene Papa Francesco a chiedere per il sette settembre prossimo, vigilia della festa della Natività di Maria Mantissima, una giornata di digiuno e di preghiera per accelerare l’avvvento della PACE MONDIALE MESSIANICA. Il tuo piccolo fratello Sac. Salvatore Paparo Cintano 3. 9. 2013

2 set 2013

Amatissimi lettori e lettrici

del blog dell’Opera Cenacolo Familiare, ad un anno esatto dalla morte del cardinale Carlo Maria Martini, oggi 31 agosto 2013, ricevo la rivista “Famiglia Cristiana” n. 35 1° settembre 2013. La trovo molto interessante e vi riferisco quanto di più importante la rivista ha pubblicato sul cardinale. Sulla copertina leggo: “CARLO MARIA MARTINI AD UN ANNO DALLA SCOMPARSA SI AVVERA IL SUO SOGNO DI UNA NUOVA CHIESA IL CARDIANALE CHE ANNUNCIO’ PAPA FRANCESCO Alla pagina 8 “Colloqui col Padre”, Giovanni T. Padova, fra l’altro scrive: “Il 31 agosto, sul finire dell’estate, il cardinale Martini ha lasciato la vita terrena e ci ha consegnato, come eredità preziosa, un sogno: quello di una Chiesa più accogliente, che va incontro alle persone senza giudicarle, che non sale in cattedra ma preferisce sedersi a tavola con tutti. Una Chiesa più sinodale, sempre in cammino e, quindi, bisognosa di strutture più leggere. Più povera e più libera, disposta a rischiare. Un sogno che viene da lontano, coltivato da almeno mezzo secolo con le speranze del Concilio Vaticano II. E che, con la scomparsa di Martini, sembrava svanito o proiettato in un futuro distante. Invece, dopo appena due stagioni, sul finire dell’inverno, è arrivata la coraggiosa decisione di Ratzinger. Poi, l’elezione di Bergoglio, gesuita come Martini, con un nome che è già un programma: Francesco. E ancora una serie impressionante di gesti, tutti nella direzione sognata da Martini” “Quel che sta succedendo nella Chiesa è bello. Dà gioia e speranza a tanta gente. La fede muove le persone a riconoscersi come fratelli e abbracciarsi. Un nuovo atteggiamento che rende tutto diverso”. “Come fu per Gesù e per gli Apostoli, sempre in cammino verso nuovi incontri. Come fu per i profeti e anche per Martini. Anch’egli, come Mosè, non vide “la terra promessa”, ma si fermò vicino alla meta, ad appena due stagioni di distanza. Nell’ultima sua intervista disse: “Consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo Spirito possa diffondersi ovunque”. La Chiesa che sta arrivando è quella sognata da Martini? Io spero di sì”. Risposta di don Antonio Sciortino: “Non so se il sogno del cardinale Martini si sia avverato. Di certo se fosse vivo oggi non gli dispiacerebbe la nuova Chiesa di papa Francesco, un gesuita come lui ed entrambi candidati nel Conclave del 2005 per la successione a Giovanni Paolo II. Pochi giorni prima di morire, nell’agosto dello scorso anno, il cardinale Martini rilasciò un’intervista a padre Sporschill, pubblicata sul Corriere della Sera, una sorte di testamento spirituale che suscitò un ampio dibattito. In quel testo il cardinale denunziava il ritardo della Chiesa su tante questioni aperte, che ancora attendono risposta. “La Chiesa, disse, è indietro di duecento anni” a significare come avesse perso l’ottimismo, la freschezza e lo slancio che lo caratterizzavano negli anni del Concilio Vaticano II”. “La Chiesa, diceva, deve avere la forza di riconoscere i propri errori e percorrere un cammino di radicale cambiamento, cominciando dal papa e dai vescovi”. Ad un anno dalla sua morte, il messaggio di Martini è quanto mai vivo e attuale. La rivista “Famiglia Cristiana”, alla pagina 50 pubblica un articolo del vescovo Bruno Forte su Carlo Martini, intitolato “IL CARDINALE CHE ANNUNCIO’ FRANCESCO”. Trascrivo quanto reputo sia più importante: “Quale eredità possiamo raccogliere dal Cardinale Carlo Maria Martini a un anno dalla sua morte? Proverò a rispondere a questa domanda riferendomi ad un’idea a lui cara, centrale nella spiritualità e nella lingua di sant’Ignazio di Loyola: l’idea DELLA RIVERENZA. In Martini la riverenza verso il divino si concretizzava nell’amore alla Parola di Dio: è questo che spiega la cura con cui egli accostava il testo biblico ed è ciò che fa capire come il cardinale non si fermasse ad una lettura solamente filologica delle Scitture, ma avvertisse l’urgenza di nutrirsi della Parola di vita, affinchè essa inondasse della sua luce tutti gli spazi dell’anima”. “E’ ancora l’atteggiamento della riverenza quello che ispirava i rapporti ecclesiali di Carlo Maria Martini: non si trattava solo del rispetto dovuto ai superiori religiosi o della profonda venerazione da lui nutrita verso il successore di Pietro, ma anche della sua attenzione a ogni membro del popolo di Dio, quale che fosse la sua età o reponsablità o maturazione nella vita di fede. Un passaggio degli Esercizi Spirituali di Ignazio fa ben comprendere che cosa significhi ispirare questi rapporti alla riverenza: “Un buon cristiano deve essere propenso a difendere piuttosto che a condannare l’affermazione di un altro. Se non può difenderla , cerchi di chiarire in che senso l’altro la intende; se la difende in modo erroneo, lo corregga benevolmente; se questo non basta, impieghi tutti i mezzi opportuni perché la intenda correttamente, e così possa salvarsi”. Chi ha conosciuto il cardinale sa come ciascuno di questi passi fosse da lui scrupolosamente osservato. Da quest’atteggiamento di rispetto derivava in Martini il desiderio di una maggiore collegialità nella vita ecclesiale: non si trattava in alcun modo di una pretesa anti gerarchica o ispirata da quello che Balthasar aveva definito l’affetto anti romano”. L’arcivescovo di Milano era profondamente convinto del ruolo decisivo del successore di Pietro nel confermare i fratelli: il maggiore sviluppo della collegialità, da lui auspicato, voleva essere precisamente un aiuto all’esercizio il più possibilie snello ed efficace del ministero petrino, oltre che una via per favorire l’effettiva sollecitudine per tutte le Chiese, di cui ogni vescovo è partecipe nel collegio episcopale. Nei rapporti, poi, con l’insieme del popolo di Dio quest’atteggiamento di rispetto per tutti si traduceva nella volontà di promuovere la “sinodalità” intesa come partecipazione e corresponsabilità di ogni battezzato, secondo il dono ricevuto e il ministero esercitato, nei processi decisionali e nelle realizzazioni pastorali della Chiesa. Una comunità dove tutti si sentissero responsabili e ognumo lo fosse effettivamente in accordo con la vocazione ricevuta da Dio: tale era il popolo dei battezzati nel “sogno” di questo grande successore di Ambrogio. Infine, l’atteggiamento ignaziano della riverenza era alla base anche del modo di porsi di Martini nei confronti della cosidetta cultura laica, dei non credenti e di tutti i possibili cercatori di Dio: il cardinale sapeva accogliere tutti, non imporsi a nessuno. Allo stesso tempo, ascoltando le ragioni dell’altro, sapeva crescere nella consapevolezza del dono di credere e riusciva a camminare con l’altro, senza forzature nè compromessi, sui sentieri di obbedienza alla verità. La “Cattedra dei non credenti” è stata una scuola di esercizio reciproco della riverenza per tutti, credenti e non credenti, e proprio per questo un luogo di incontri sorprendenti di approdi luminosi, di scoperte salutari. Resta da chiedersi se quanto si è detto aiuti a valutare la prossimità o la lontananza del cardinale da papa Francesco. Le diversità sono evidenti: espressione del Nord del mondo l’uno, dalla tipica cultura europea, raffinato cultore di scienze bibliche, perfino aristocratico nell’espressione che suscitava in chi non lo conoscesse, data la sua innata timidezza; venuto “dalla fine del mondo” l’altro, espressione dell’anima latinoamericana, dall’umanità calda e comunicativa, dalla cultura vasta e insieme legata all’esperienza del servizio alle periferie geografiche ed esistenziali, testimone convinto della scelta preferenziale dei poveri e della povertà come stile di vita. Eppure fra questi due poli, il legame mi sembra fortissimo: esso sta proprio nell’identità spirituale plasmata alla scuola di Ignazio e della riverenza. In questo senso, tanto sul piano del primato di Dio, quanto su quello del desiderio di una Chiesa di cristiani adulti e corresponsabili, dove collegialità e sinodosità siano di casa e dove oguno possa sentirsi accolto e amato, Bergoglio e Martini sono vicinissimi, fino a poter intravedere nel Papa che Dio ha voluto oggi per la sua Chiesa la realizzazione della speranza e della preghiera, sulla quale si era chiusa appena ieri – come una soglia affacciata al domani – la vita del grande successore di Ambrogio “. Bruno Forte A cura del sacerdote Salvatore Paparo Cintano 31 agosto 2013